Intervento di | Federico Chicchi |
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A partire dal manifesto di intenti di Editrice Socialmente desidero qui proporre una breve riflessione. Più specificatamente ci sono due aspetti del documento che meritano di essere, credo, sottolineati e ulteriormente problematizzati. In primo luogo il concetto di rappresentazione legittima del mondo sociale che viene avanzato nella sua prima parte e in secondo luogo la centralità che il tema della sfera pubblica ricopre nella sua economia complessiva. Lo farò brevemente e in modo "provocatorio", anche per rispettare l'economia retorica di questo spazio e favorire il dibattito.
Cosa significa produrre una rappresentazione legittima? Legittima rispetto a cosa? Non è la rappresentazione un mero piano di proiezioni immaginarie che devono fare segno, in un movimento che si dà per lo più dall'alto verso il basso? Credo piuttosto che sarebbe più utile abbandonare lo spazio retorico delle rappresentazioni sociali e parlare invece gramscianamente di lotta per l'egemonia.
L'egemonia è un concetto differente da quello di rappresentazione perché la prima, diversamente dalla seconda, s'iscrive materialisticamente nel corpo stesso del conflitto sociale e non si occupa di produrre legittimità ma parzialità, capaci anzi di interrogare senza reticenze il piano di formazione ideologica della legittimità stessa. La partita si gioca in altre parole attorno alla materialità delle esperienze sociali coagulate attorno alle formazioni egemoniche. È lì che occorre tornare a giocare un ruolo politico rilevante. Per dirla con Ernesto Laclau è solo lo sviluppo di una capacità egemonica che può favorire la produzione di un nuovo agonismo sociale. Senza un discorso egemonico non rimarrebbe infatti che una mera, frammentata e confusa conflittualità, privata così di interessanti sbocchi politici e per lo più incapace di articolare un rapporto tra i diversi elementi della presente ed eterogenea conformazione sociale.
I temi su cui occorre insistere sono quelli della solidarietà sociale, dell'auto-organizzazione degli spazi di conflittualità sociale, e della democrazia radicale. In Europa, nella sinistra europea si aprono spazi di partecipazione e coalizione che vanno in questa direzione. Credo che occorra cominciare ad osservarli senza troppi entusiasmi ma anche senza pregiudizi.
Anche per questa ragione occorre precisare meglio la qualità della sfera pubblica. Assumerla in modo ingenuo così come il moderno l'aveva definita e operativizzata non è più oramai molto utile all'azione sindacale e politica. Occorre fare i conti con il costituirsi di una nuova soggettività di lavoro che ha come confini non lo Stato Nazione ma il profilo stesso del mondo, le sue nuove frontiere, le sue nuove subalternità, le sue crescenti e spiazzanti eterogeneità. Diventa allora imprescindibile a mio avviso assumere l'irriducibilità della composizione sociale del lavoro contemporaneo alle classiche forme rappresentative dello Stato.
Pensare che l'attuale eterogeneità del lavoro sia ricomponibile all'interno di una sfera pubblica, intesa come spazio unitario e per lo più liscio, sarebbe un grave errore politico. Occorre invece, seguendo Ranciere, rifare i conti alle contabilità (il gioco di parole è voluto) delle figure sociali legittimate a comparire nello spazio pubblico. Occorre cioè che la politica diventi il portato della presa di parola di chi non era previsto (in quello schema) che prendesse parola, ovvero il mezzo per l'insorgere della «parte dei senza parte» che scompagina l'ordine della police.
Insomma la sfera pubblica (in Italia soprattutto dopo il 1992) è oggi un terreno tutto da ricostruire, a partire dalla consapevolezza che nella governamentalità neoliberale i nessi che regolavano i rapporti tra pubblico e privato sono oggi quasi completamente saltati in aria.
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Vando Borghi commenta Chicchi: Vorrei riprendere la riflessione che Federico ci propone, perché quelle che solleva mi sembrano questioni importanti. La vicinanza di punti di vista e gli scambi con l’autore dell’intervento sono tali che la mia può essere intesa come una riflessione a voce alta con me stesso più che una vera e propria risposta ad argomentazioni altrui. Due i punti in questione. Il primo: rappresentazione e egemonia. Potrei cavarmela svicolando: tra rappresentazione legittimata socialmente ed egemonia c’è solo differenza di grado. La seconda sarebbe semplicemente una rappresentazione che fa più presa delle altre nel delineare il terreno sul quale poi i soggetti sociali intervengono. Ma dall’appunto, per molti aspetti condivisibile di Federico, mi pare rimanga fuori un aspetto che invece a me pareva presente nel documento e che credo qualificante del lavoro di una casa editrice. Al di là della distinzione rappresentazione / egemonia e prima delle eventuali strategie per contribuire a costruire una qualche egemonia, mi pare compito prezioso di qualsiasi luogo in cui si aspiri a produrre sapere il compito di mettere a tema la lotta stessa che per l’egemonia, nelle forme che assume nel nostro mondo contemporaneo, va compiendosi. Prima ancora di prendere parte ad esso, si tratta di nominare il conflitto, farlo emergere nei suoi contorni, ricondurre gli attori in gioco alle parti che in esso vanno sostenendo, laddove invece in generale si tende o a produrre immagini che quel conflitto lo negano, lo minimizzano fino ad arrivare a immaginare l’interscambiabilità delle parti in commedia; oppure se ne costruiscono fantocci di comodo, fuorvianti, utili a depistare l’attenzione o semplicemente frutto di analisi sbagliate. Non mi pare opera trascurabile: obbiettivo di scala più ridotta, penso però potrebbe costituire una bella sfida per un progetto culturale come quello di una casa editrice come la nostra. Il secondo: sfera pubblica. Qui sono ancora più d’accordo con Federico: occorre contribuire ad un “cosmopolitismo dal basso” – come lo definisce un antropologo che a me convince molto – nel quale si va alla ricerca appunto di due cose. Primo, un terreno di riformulazione del cosmopolitismo, in cui cioè evitare che la reazione ai crescenti ai problemi (per dirla in breve) della globalizzazione si traduca nella chiusura entro piccole patrie” e “piccoli pensieri” e nel quale alcuni principi (moderni) che credo non dovremmo abbandonare (per fare un esempio tra i più oggetto di contumelie: universalismo) non siano abbandonati alle definizioni e alle pratiche partorite da quella modernità che le ha poi vanificate e negate nel concreto, contribuendo al loro discredito al loro declino. Secondo, si sforza di cercare quel terreno interagendo a stretto contatto (che non vuol dire né andare alla ricerca del nuovo soggetto rivoluzionario, né proiettando su quel soggetto visioni e obiettivi che sono molto più nostri che loro) con le condizioni di coloro che, come Federico stesso ricorda, non sono neppure convocati al tavolo della discussione. Anche in questo caso, si tratta di un lavoraccio, molto faticoso, talvolta scoraggiante, in cui può essere facile perdere il senso di quello che si sta facendo. E che richiede un sacco di tempo. Perché la sfera pubblica, antropologicamente parlando, mi pare talmente degradata che la disponibilità stessa, da parte degli individui, a fare uso del proprio tempo e delle proprie competenze per prendervi parte non mi pare si possa più dare per scontata. AL tempo stesso, sovente mi stupisco dei segni di vitalità e di non rassegnazione che pure si ritrovano in contesti e luoghi anche molto diversi. Fare luce su questa condizione in cui ci troviamo, sulla natura e i limiti della sfera pubblica per come soggetti diversi – a partire dai più deboli – ne fanno esperienza, mi pare anch’esso un compito ambizioso ma doveroso per chi voglia produrre cultura. |